Tante volte abbiamo parlato di sincretismo religioso brasiliano, cercando di affrontare il tema nel modo più completo possibile nonostante si tratti di un universo tanto complesso quanto interessante.
Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, la rete offre numerose risorse tra cui documentari. E proprio cercando tra i documentari, ci siamo imbattuti in questo lavoro sul candomblé curato dalla cantante sergipana Héloa da sua madre Martha Sales.
Il documentario, dal titolo Eu, Oxum, racconta in un modo delicato, poetico e assolutamente non stereotipato cosa rappresenta il Candomblé per i suoi fedeli, come il culto degli ancestrali arricchisca le vite dei credenti. Quello che madre e figlia fanno in questo lavoro è creare un punto di accesso ad un mondo troppo spesso vittima di violenza e pregiudizi che, in tutta risposta, è in grado di offrire pace, rispetto e amore.
Ovviamente risulta difficile raccontarvi in poche parole un lavoro che racconta sentimenti così profondi e per questo abbiamo chiesto a Héloa di raccontarcelo in questa breve ma interessante intervista.
Quello che però dovreste fare è premere play sul video in alto e lasciarvi trasportare dalla poesia di Eu, Oxum. Non potrà che farvi bene
Com’è nata l’idea alla base del documentario Eu, Oxum?
Il documentario nasce da un sogno. Un bel giorno mi sono svegliato con la sceneggiatura in mente, esattamente come è accaduto per altri progetti che ho realizzato in passato. Credo, comunque, che questo lo si deva al fatto di essere totalmente immersa in quel luogo che è l’Ilê Axé Omin Mafé. Frequento questa casa da cinque anni e sono sempre stata affascinata dalle storie che si intrecciano in questo posto. Prendendo spunto dalla mia esperienza, ho voluto raccontare, insieme a mia madre e Yalaxé dell’Ilê, Martha Sales, la quotidianità di questo spazio e quello che ruota intorno alla figura di questa Orixá, Oxum.
Chi sono le donne di Oxum?
L’ilê (ovvero la casa in cui si celebrano i riti ndr.) ha più di dieci figli di Oxum ma nel documentario ne appaiono solo dei, tra cui io. Quelle che vedi nel film sono le donne importanti nel mio cammino spirituale. A partire da Mãe Bequinha, la più antica figlia di Oxum di Riachiuelo, città in cui l’ilê è situato, e includendo le altre figlie di diverse epoche e gerarchie, tutti hanno raccontato un po’ della loro storia, dall’arrivo in questo spazio sacro, delle difficoltà affrontate, degli insegnamenti e delle scoperte che si realizzano dinanzi alla forza di queste pratiche ancestrali, perpetuate da questa família de santo da quasi 40 anni, sotto il comando della Yalorixá Maria José, ovvero Mãe Bequinha.
Quanto è importante raccontare il Candomblé in un documentario?
Esistono diversi documentari sulle religioni di matrice africana in Brasile e, nonostante il Candomblé sia una delle più grandi religioni del Paese, viviamo quotidianamente episodi di razzismo religioso, razzismo istituzionale, essendo costretti a lottare per il diritto di professare la nostra fede in un Paese che si dice laico. Il documentario nasce esattamente dalla necessità di raccontare senza filtri la realtà di questo luogo sacro cercando di demistificare alcune dei pregiudizi che esistono sul nostro universo religioso.
Quali sono state le difficoltà incontrare durante la realizzazione del progetto?
Ce ne sono state diverse. È un documentario prodotto in modo del tutto indipendente. Per venti giorni mi sono adoperata per registrare i dialoghi, i filmati, i momenti e gli avvenimenti che avvengono nell’Ilê. La cosa più difficile, però, credo che sia stato il dover documentare tutto senza diventare invadenti.
Come filha dell’Ilê e regista insieme a mia madre Martha Sales, ho dovuto comprendere a fondo le gerarchie che si creano intorno a questo luogo sacro, rispettarle e capire quello che poteva essere registrato e quello che invece era giusto mantenere lontano dalle telecamere.
Cos’è il Candomblé?
Il Candomblé non è altro che un universo religioso che prende forma a partire dall’influenza di credenze, riti, pratiche e aspetti mitologici e simbolici millenari che approdarono in Brasile con l’arrivo degli schiavi africani. Siamo devoti a diverse divinità che hanno nomi e caratteristiche diverse ma che nel loro insieme si definiscono come Orixás, Voduns o Inkices. È una religione meravigliosa e ricca in tutti i suoi aspetti che ha permesso che il popolo nero e la sua cultura fossero preservati fino ai giorni nostri.
Perché, secondo te, ancora oggi sono molti i pregiudizi contro le religioni come il Candomblé?
In Brasile stiamo vivendo un momento di retrocesso. Dobbiamo far fronte oltre che al razzismo religioso, anche a quello istituzionale in un contesto in cui lo Stato non è garante, non protegge chi deve proteggere e non punisce chi andrebbe punito. I casi di violenza contro le case di axé sono sempre più numerosi. L’ignoranza dilagante sulla nostra storia e sulle nostre origini è disarmante. Il razzismo, sembra strano dirlo, è uno dei maggiori mali di questo Paese dove più del 50% della popolazione è nera e vive in una condizione di povertà.
Affrontiamo questo problema quotidianamente nella nostra religione, negli abiti che indossiamo, nella musica, nelle condizioni salariali, nelle possibilità di accesso all’istruzione. Per chi è candomblecista, gli episodi di razzismo religioso vanno aldilà di ogni cosa. Basti pensare che le religioni di matrice africana come l’umbanda, il nagô, il candomblé sono ancora oggi demonizzate.
Credo che sia importante mostrare, come io e Martha Sales abbiamo fatto in questo lavoro, questa religione in un modo più puro e leggero per cercare di rompere paradigmi, di accogliere e provocare così che anche le altre persone possano quanto meno conoscere la realtà di chi vive il candomblé o le altre religioni di matrice africana.
Qual è il modo migliore per affrontare questi pregiudizi?
Prendere una posizione e affermarsi per difendere qualcosa di così bello. Non possiamo e non dobbiamo vergognarci del nostro culto. Non dobbiamo aver paura. Tutt’altro. Dobbiamo affrontare i nostri stessi pregiudizi. Anche io ci sono passata. Come artista indipendente, credevo non fosse possibile conciliare la mia professione con la religione. Oggi, invece, credo che il Candomblé mi abbia permesso di incontrare me stessa, di conoscere la storia dei miei ancestrali, quelli che un giorno hanno lottato per la libertà, quelli che mi hanno permesso di rinascere e che mi danno la forza di esistere e andare avanti.