Tra le scene del film documentario Brasileirinho di Mika Kaurismäki (2005), ci sono due momenti particolarmente intensi: l’incontro dei tre mandolinisti Joel Nascimento, Ronaldo do Bandolim e Hamilton de Holanda, e l’esecuzione di Carinhoso, in cui Yamandu Costa con la chitarra a sette corde improvvisa contrappunti sulla melodia cantata dal pubblico. E ormai da anni, quando inizio i corsi sulla musica brasiliana, nell’ambito delle lezioni che svolgo per il Dipartimento di Jazz del Conservatorio “F. Cilea” di Reggio Calabria (dove insegno dal 2007), faccio vedere questo bellissimo documentario sullo choro, tappa iniziale del corso, a cui seguono gli approfondimenti su samba, bossa nova e mpb, facendo ascoltare musica e vedere video di questi e di altri grandi artisti brasiliani. Potrete quindi ben comprendere la mia emozione quando a inizio luglio sono improvvisamente comparsi per la città di Reggio Calabria i manifesti dello straordinario festival Reggio chiama Rio, nato dalla collaborazione tra l’amministrazione comunale di Reggio Calabria, con la sua kermesse di eventi culturali Alziamo il sipario, e Fatti di Musica, rassegna diretta da Ruggero Pegna, nel quale si è vista e si vedrà la presenza dei maggiori musicisti dell’attuale scena brasiliana, da Jaques e Paula Morelenbaum a Maria Gadú, fino a Hamilton de Holanda, con la partecipazione nella sessione autunnale di Gilberto Gil e Yamandu Costa. Ho potuto seguire solo alcuni di questi concerti che si sono tenuti nel magnifico spazio all’aperto dell’Arena dello Stretto, ma l’impressione è stata quella di tornare molto indietro nel tempo, quasi alla Roma di Nicolini, quando nel 1983 vidi lo storico festival Bahia de todos os sambas, segno di una visione culturale rara nell’attuale panorama italiano. E in quei giorni che ero a Reggio, tra 11 e 17 luglio, è stato come riallacciare alcuni “fili” del passato, proiettandosi in una dimensione futura.
Il festival è iniziato l’11 luglio con il “benvenuto” di una delle realtà musicali più interessanti di Reggio Calabria: I Tamburi di Luca Scorziello, gruppo costituito da oltre 20 elementi, fondato alcuni anni fa dall’eclettico e creativo percussionista reggino (attivo nel panorama pop italiano con collaborazioni, tra gli altri, con Alex Britti e Mannarino, e allievo in Brasile di Marcelo Costa, percussionista di Caetano Veloso). Ospiti della serata i cantautori siciliani Mario Venuti e Tony Canto, entrambi appassionati di Brasile. Iniziano i “tamburi” (nel cui ambito militano alcuni tra i migliori percussionisti della zona),

Tony Canto, Luca Scorziello, Mario Venuti (Arena dello Stretto, Reggio Calabria, foto di Massimo Lazzaro)
integrati da alcuni strumenti elettrici, ed è subito energia, con brani originali, tra cui il coinvolgente Obadaye di Scorziello, che farà parte del loro cd d’esordio. Dopo l’emozionante partecipazione di Tony Canto, è la volta del lungo set di Mario Venuti, i cui brani, interpretati con una timbrica della voce quasi soul, sono stati riarrangiati in una direzione più “afro”. La ritmica, ottimamente costruita, è molto “baiana”, si sentono echi dei blocos afro, del samba-reggae, e non a caso verranno poi eseguiti due brani del repertorio di Caetano Veloso: Depois que o Ilê passar (inciso da Caetano nel 1987 proprio con la ritmica di Marcelo Costa e Carlinhos Brown), e A luz de Tieta, pezzo portante della colonna sonora composta da Veloso per il film Tieta do Agreste di Cacá Diegues, tratto dall’omonimo romanzo di Jorge Amado. L’Arena era gremita, e tra il pubblico che dal lungomare accorreva richiamato dall’energia ritmica, è stato bello vedere alcuni immigrati africani presenti nella zona che si avvicinavano incuriositi: nei loro sguardi mi sembrava di cogliere una sintonia con qualcosa che percepivano come proprio. Intrecci di suoni e ritmi che, tra Mediterraneo, Africa e America Latina, ci fanno riflettere sulle trasformazioni in atto nella nostra società, rispetto alle quali il Brasile, come mise già in evidenza Sérgio Buarque de Hollanda negli anni ‘30 a proposito dell’idea di meticciato, può rappresentare in un certo senso un prototipo.
E proprio Dal Mediterraneo al Brasile sulla rotta delle Sirene era il titolo della serata successiva del 14 luglio, alla quale purtroppo non ho potuto assistere per impegni lavorativi fuori Reggio: un racconto per immagini e suoni di Patrizia Giancotti, antropologa e fotografa che da oltre 30 anni si occupa di Brasile, realizzato insieme al percussionista e inventore di suoni Peppe Consolmagno (con il suo set di tamburi ad acqua, caxixi, berimbau, e altri strumenti), nel quale si è seguita la rotta della Sirena che dalle sponde dello Stretto giunge alle spiagge del Brasile, “dove è celebrata come una dea con il nome di Iemanjá”. Dalle cronache giornalistiche e dai racconti degli amici che sono stati presenti, sembra essere stata proprio una serata magica, con un finale a sorpresa quando la Giancotti, come lei stessa mi ha poi raccontato, seguita da alcuni spettatori ha lasciato il palco per lanciare in mare rose bianche per le sirene dello Stretto, ispirandosi ai riti per la dea del mare Iemanjá. Un festival del genere è anche un modo per incontrare amici e conoscenze degli anni passati. E così è stato bello, una volta rientrato a Reggio, rivedere dopo circa 25 anni Patrizia, che, ricordo, incontravo a volte a Roma nei primi anni ‘90, grazie alle nostre comuni conoscenze brasiliane. Ho poi finalmente potuto conoscere Peppe Consolmagno, il cui volto, curiosamente, quattro anni fa si andava materializzando in un ritratto grazie alla performance pittorica di Alessandro Allegra, durante l’indimenticabile seminario “B come Berimbau”, organizzato nell’ottobre 2013 da Demetrio Spagna presso il Museo dello Strumento Musicale di Reggio Calabria, tenuto da Gilson Silveira con la mia collaborazione: un evento che diede un ulteriore impulso al movimento “brasiliano-reggino”, sulla scia del quale, nell’ambito dei miei corsi in Conservatorio, nacque successivamente il gruppo musicale EfeitoBrasil.
Il 15 luglio, ancora assente purtroppo, è stata la volta del concerto di Maria Gadú, un’artista tra le più
interessanti dell’attuale panorama brasiliano, cresciuta tantissimo nell’ultimo decennio dopo lo straordinario successo di Shimbalaiê. Concerto, a quanto pare, strepitoso, come mi hanno confermato alcuni allievi il giorno dopo, letteralmente “scioccati” dalla carica innovativa della cantautrice di São Paulo, per altro sempre in prima fila anche per diritti civili e la difesa della democrazia in Brasile, come testimoniato anche dall’appello che durante il concerto ha lanciato contro l’omofobia, riportato dalle cronache giornalistiche.
Tornato a Reggio, il 16 era il giorno dell’imperdibile “Omaggio a Jobim” di Jaques Morelenbaum e il suo Cello Samba Trio, con la partecipazione di Paula Morelenbaum: due icone viventi della storia della bossa nova. Jaques lo avevo visto varie volte in alcuni concerti fondamentali per la mia formazione: nel quartetto di Egberto Gismonti (1994), nello spettacolo Fina Estampa di Caetano Veloso (1995) e in altre occasioni. Paula non ero mai riuscita a vederla dal vivo (secondo Sérgio Cabral, lei – contrariamente a quanto credevo di ricordare – non era presente nel coro femminile della Nova Banda di Tom Jobim nel concerto che vidi nel 1984 al Teatro
Olimpico di Roma, essendo entrata nel gruppo solo l’anno successivo). È stata comunque la prima volta che ho visto Jaques come leader, e lo spettacolo è stato di gran livello, nonostante l’assenza nel trio di un gigante del “violão brasileiro” come Lula Galvão. Ripercorrendo le tappe dei grandi classici del “mestre soberano” (accanto a sé Jaques aveva appeso un cappello di paglia, emozionante “simbolo jobiniano”), il violoncello alternava il “canto” solistico a momenti contrappuntistici e “coloristici”, sfruttando tutte le potenzialità dello strumento, fino all’uso del pizzicato che a tratti contribuiva a dare l’impulso ritmico al trio, completato da Jurandir Santana alla chitarra e Marcio Diniz alla batteria. Dopo l’interpretazione di brani come Modinha, Samba de uma nota só, Brigas nunca mais, il suo intenso e ipnotico Maracatuesday ed altri pezzi, uno dei momenti più emozionanti della prima parte strumentale, è stata certamente la versione con il solo violoncello di Retrato em branco e preto. Successivamente, entrata sul palco, Paula ha illuminato con la sua classe
l’Arena dello Stretto: si continua con la carrellata jobiniana (Águas de Março, Desafinado, Corcovado, A felicidade, Agua de beber, Samba do avião, ecc.) dove ha spiccato la bellissima interpretazione di Tema de amor de Gabriela, composta da Jobim e interpretata insieme a Gal Costa per il film “Gabriela” diretto da Bruno Barreto nel 1983, tratto dal romanzo di Jorge Amado “Garbriela, Cravo e Canela” (ancora un richiamo nel festival al grande scrittore brasiliano, che in qualche modo sarà “presente” anche nella prosecuzione di novembre con l’installazione fotografica di Patrizia Giancotti “A Alma da Bahia – il Brasile di Jorge Amado”, nel foyer del Teatro Cilea). Anche questa serata è stata spunto per incontri, e così una volta terminato il concerto, andando a salutare dietro il palco che si affacciava sul mare Max De Tomassi (il conduttore della fortunata trasmissione “Brasil” di Rai Radio Uno), che aveva presentato questa serata del 16 e la precedente, ho potuto scorgere poco più avanti, nella penombra della notte reggina, la figura del grande violoncellista carioca, che, avvicinatosi all’acqua, contemplava in solitudine il panorama dello Stretto, segno anche questo del rapporto profondo che le due città, sia Reggio che Rio, hanno con il mare.
Contemporaneamente al concerto dei Morelenbaum, un po’ più a nord, si teneva a Umbria Jazz l’incontro al “vertice” di Hamilton de Holanda, Egberto Gismonti e Stefano Bollani. La mattina dopo
Hamilton e la sua band sarebbero volati verso Reggio Calabria, insieme al loro infaticabile agente in Italia, Luciano Bertrand, per regalare alla città una delle più belle serate degli ultimi anni. Il concerto del 17 luglio di Hamilton de Holanda e O Baile do Almeidinha è stato a dir poco strepitoso, e per tutti i presenti è stata una serata di grandi emozioni. O Baile do Almeidinha, è uno spettacolo che va avanti da alcuni anni al Circo Voador di Rio de Janeiro, nato proprio con l’intenzione di realizzare un “ballo”, con un repertorio da choro de gafieira (lo choro ballabile) e realizzato da un gruppo di otto elementi, con batteria, percussioni, contrabbasso, due fiati, chitarra, fisarmonica, nel quale spiccano i grandi chorões Eduardo Neves e Aquiles Moraes, e ovviamente il mandolino (bandolim) a 10 corde di Hamilton. Decido di andare anche alla prova dei suoni nel pomeriggio, e riesco a sentire anche qualche frammento di chorinho suonato in solo da Hamilton (cosa che non avverrà al concerto), e quando la band sale sul palco per provare già si comprende che sarà una serata memorabile. Vengo quindi “scritturato” per presentare il concerto, e poi non resta che aspettare. Verso le 22.00 si inizia, e dopo i saluti del direttore artistico del festival Ruggero Pegna, di Luca Scorziello e dei delegati comunali Gianni Latella e Nicola Paris, con enorme piacere introduco brevemente il pubblico al mondo dello choro e presento questo straordinario progetto di Hamilton de Holanda. Mentre scendiamo dal retro palco, contemporaneamente salgono i musicisti accompagnandosi con il battito di mani del brano introduttivo Saudação (del contrabbassista Guto Wirtti e di Hamilton) basato su un ritmo afrobrasiliano in 12/8. A seguire il samba Sem compromisso di Geraldo Pereira, nel quale i musicisti cantano anche in coro: ed è subito commozione. È un incalzare di ritmi, melodie, contrappunti eseguiti da un gruppo che sembra un’unica entità, illuminata dal fraseggio mirabolante del mandolino di Hamilton, di un virtuosismo mai fine a se stesso: si susseguono brani originali firmati da Hamilton e in alcuni casi dai componenti del gruppo, e classici della musica brasiliana. Non solo choro, ma anche il samba di A escola e a bola e Balaio, lo xote di Xote do Almeidinha, il frevo di Frevo carioca, e le influenze centroamericane di O palhaço e a bailarina e Essa fada, e poi l’incredibile rilettura di Chega de saudade di Jobim e Vinícius de Moraes (riportata alla sua matrice di samba-choro, pre-bossa nova), e nel finale l’emozionante e quasi rituale História de pescadores di Dorival Caymmi (sempre sia lodato Caymmi!), che in una città di mare come Reggio Calabria, come a Salvador, assume ancora più pregnanza. In mezzo l’accenno a Reginella, interpretata dal solo mandolino di Hamilton accompagnato dal canto entusiastico del pubblico, e il bellissimo choro Capricho de Raphael, uno dei 24 capricci per mandolino composti da Hamilton e riarrangiato per l’occasione in forma di “gafieira”, dedicato al compianto grandissimo chitarrista Raphael Rabello, nel quale all’incalzante ritmo afrobrasiliano in due, che rimanda alle sonorità antiche del tango brasileiro, si sovrappone un fraseggio melodico con spostamenti metrici che fa ricordare i giochi ritmici di Jacob do Bandolim e prima ancora di Pixinguinha. Dinamiche e arrangiamenti raffinatissimi, timbri e colori sempre mutevoli per un concerto

Hamilton de Holanda & O Baile do Almeidinha (Arena dello Stretto, Reggio Calabria, foto di Antonio Sollazzo)
indimenticabile, che i musicisti non avrebbero mai voluto terminare. Avevo visto il quintetto di Hamilton il 2 luglio del 2010 a Roma, nel giorno della sfortunata sconfitta del Brasile con l’Olanda ai mondiali di calcio in Sudafrica, e per questo il mandolinista carioca fu inizialmente, diciamo, un po’ di “cattivo umore”, anche se a mano a mano il calore del pubblico lo riportò al consueto entusiasmo. Anche allora fu un concerto molto bello, ma noto ora una ancora maggiore maturazione di questo artista che penso possa essere considerato uno dei più grandi musicisti del nostro tempo, nel momento storico della sua piena maturità creativa. Finito il concerto riesco a salutarlo: foto, consegna di dischi e autografi di rito e la magica serata sembra poi volgere al termine, con una caipirinha tra amici. Rientrando, nella notte, scorgiamo nel centro di Reggio due musicisti che suonano camminando per le vie della città ed è l’ultimo regalo che São Pixinguinha ci manda dal cielo: sono il flautista Eduardo Neves e il trombettista Aquiles Moraes che interpretano il famoso choro di Pixinguinha Ingênuo. Ci fermiamo ad ascoltare. Poi attacchiamo a cantare Carinhoso, con loro che improvvisano geniali contrappunti. Nel salutarci il grande Eduardo Neves mi dice una frase su cui poi rifletterò nei giorni successivi: “la musica non ha bisogno di noi, ma siamo noi ad aver bisogno della musica”. Come per altri grandi chorões che ho conosciuto, lo spazio della musica e quello della vita sembrano coincidere quasi totalmente.
Dopo i concerti di Toquinho e Selma Hernandes (4 agosto) e di Robertinho de Paula con Fabrizio Bosso (6 agosto) allo storico festival reggino Ecojazz diretto da Giovanni Laganà, la Calabria di “Reggio chiama Rio” saluterà di nuovo il Brasile con lo spettacolo del 9 agosto di Sergio Cammariere, il compositore e cantautore crotonese appassionato di musica brasiliana, che nel 2008 divise il palco dell’Ariston di Sanremo con Gal Costa. Il festival riprenderà poi il 4 novembre con Gilberto Gil e il Cortejo Afro, con il Nucleo de Opera da Bahia, e si concluderà il 28 novembre con il concerto di Yamandu Costa. Un grazie di cuore all’amministrazione comunale, agli organizzatori, agli artisti coinvolti e a tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di questo festival straordinario, che per me rappresenta il coronamento di un sogno, dopo tanti anni passati a Reggio nel tentativo di contribuire alla divulgazione della cultura musicale brasiliana. Come ha detto Jaques Morelenbaum al termine del suo concerto “Reggio ama Rio… Ma anche Rio ama Reggio”. Sarebbe stato fiero e felice Renato Nicolini, che spesso incontravo sull’aereo quando veniva alla Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio, perché in fondo è come se un pezzo di “estate romana”, dopo più di 30 anni, si fosse trasferito sulle rive dello Stretto.

