Il 28 novembre scorso è stato un giorno importante per i chitarristi e tutti i musicisti di Reggio Calabria: in occasione del concerto previsto al Teatro F. Cilea di Yamandu Costa, evento conclusivo del bellissimo festival di musica brasiliana Reggio chiama Rio, organizzato nel 2017 da Fatti di musica di Ruggero Pegna e da Alziamo il Sipario del Comune di Reggio Calabria, il grande musicista del Rio Grande do Sul si è reso disponibile nella mattinata per un incontro con studenti e docenti del Conservatorio “F. Cilea”, i quali poi sono confluiti al concerto serale.
Dopo la conferenza stampa tenutasi presso la Sala della Pinacoteca del Teatro Cilea, Yamandu si è recato in Conservatorio accolto da numerosi musicisti. È stato un incontro non lungo, ma molto intenso, dove Yamandu, dopo aver per prima cosa imbracciato la sua chitarra 7 corde nuova di zecca («è la musica che deve parlare»), ha detto cose molto profonde, incalzato anche dalle domande di noi docenti del Conservatorio.
Proviamo a ricostruire. Prima di tutto Yamandu ha parlato delle influenze presenti della sua musica e della sua formazione: «il Brasile è un paese molto grande. Esistono quindi molti modi differenti di suonare. Anche lo choro tradizionale, nel sud del Brasile è suonato in un modo, a Rio de Janeiro in un altro, nel nord in un modo ancora diverso. Quella brasiliana è una musica attratta dall’idea di mescolare le influenze dei diversi modi di suonare [il brano che aveva appena suonato Yamandu era appunto il suo choro Mexidão]».
Lo stato del Rio Grande do Sul, confinante con Uruguay e Argentina esprime una cultura particolare, rispetto a quella degli altri stati brasiliani, una cultura in cui confluiscono diverse tradizioni latinoamericane. E in qualche modo è stato quello di creare un ritratto di questa anima latinoamericana l’intento dello straordinario disco “Recanto”, il suo ultimo lavoro da solista che ha presentato la sera del concerto: «Da ragazzo ascoltavo soprattutto musica gaúcha, musica argentina, la chitarra argentina, folklore argentino, chacarera, chamamé [danze tipiche del nord dell’argentina]».
Dopo aver ascoltato la musica di Radamés Gnatalli, Yamandu incontrò la musica di Baden Powell, Tom Jobim, Raphael Rabello e a 17 anni andò a São Paulo e poi a Rio de Janeiro e cominciò a suonare la chitarra 7 corde: «La chitarra 7 corde è uno strumento di origine russa, che successivamente è arrivato in Brasile, ed è stato quindi incorporato nel linguaggio dello choro. È uno strumento che fa parte della musica brasiliana, ma che oggi comincia anche ad entrare nella musica argentina, peruviana. È quindi uno strumento che si adatta molto bene a diverse culture musicali. Ho cominciato a suonare la 7 corde a 17 anni, a differenza di chi nasce all’interno del mondo dello choro, che in genere comincia a suonarla da prima. I miei principali riferimenti per questo strumento sono stati Dino 7 Cordas e Raphael Rabello». Yamandu continua a parlare alternando le risposte con esempi alla chitarra di choros tradizionali e mostrando la differenza tra la 7 corde come strumento di “accompagnamento” dentro il regional di choro e la 7 corde come strumento solistico. «Negli anni ottanta Raphael Rabello cominciò a suonare questa chitarra come uno strumento solista, e questo ha cambiato totalmente il modo di suonarla. Successivamente, alla fine degli anni ottanta, io cominciai a suonare altri tipi di musica con questo strumento. È uno strumento che in qualche modo sta nascendo adesso».
All’interno del vastissimo mondo della musica brasiliana, quello di Yamandu è un mondo altrettanto vasto e pieno di influenze, sia nel modo di suonare che sul piano compositivo: «Nella mia musica c’è molta influenza della musica argentina, Piazzolla, il folklore argentino. E anche l’influenza di compositori come Tom Jobim, Baden Powell». Ma, sottolinea Yamandu, la cosa più importante nella formazione di un musicista popolare, che come lui non è passato per i conservatori, è il rapporto diretto con i musicisti: «Conosci le persone, suoni con loro, in modo informale, nella cucina, mangiando, bevendo. Questa è la scuola della musica popolare. Non esiste una accademia di tutto questo. È una musica “affettiva”». Bellissimo concetto quello di una musica “affettiva”, che potremmo forse intendere in due modi, sia come una musica che lega in forma affettiva le persone che la praticano insieme, sia come una musica che muove gli “affetti”.
Continuando ad alternare momenti suonati e spiegazioni, Yamandu ci racconta cosa sarebbe andato a presentare nel concerto serale al Teatro Cilea: musica non solo brasiliana ma anche brani con influenze della musica latinoamericana. Incalzato dalle domande dei partecipanti Yamandu ci parla poi del rapporto con l’improvvisazione da un lato e con la musica classica dall’altro: «Nella mia musica c’è molta improvvisazione. Possiamo dire che c’è un 70 percento fisso e un 30 percento di improvvisazione. Dipende dal momento, dal giorno». E poi Yamandu si dilunga un po’ nello spiegare la differenza tra l’improvvisazione nel jazz e quella nella musica brasiliana: «Nella musica brasiliana, a differenza del jazz, c’è un modo più “melodico” di improvvisare, che io ho scoperto con Dominguinhos, grande fisarmonicista brasiliano. Un modo di improvvisare dove l’intento è quello di “fare melodia”, di “cercare” la melodia. Pensando alla voce, il primo strumento che è dentro di noi. Suonando, noi abbiamo il ricordo della voce. Questa è una cosa importante per lo strumentista popolare: lo strumento serve affinché la nostra voce interiore parli attraverso lo strumento». Colpisce tra l’altro il fatto che questi grandi musicisti brasiliani così raffinati, come anche ad esempio Guinga, abbiano chiaro dentro di sé che loro sono fondamentalmente dei “musicisti popolari”, anche se il “popular” brasiliano è un concetto leggermente diverso sia dal nostro “popolare”, che dal “popular” anglo-americano: la tradizione chitarristica brasiliana e più in generale latinoamericana, è qualcosa che per le nostre orecchie è molto vicina al mondo classico, e certamente in quell’ambito il confine tra classico e popolare è molto più labile. A questo proposito Yamandu ribadisce però che, pur ascoltando molta musica classica e avendone un grande rispetto, la sua formazione è «totalmente popolare», pur con la consapevolezza che tanti elementi della tradizione classica europea sono passati dentro la musica popolare brasiliana.
Al termine dell’incontro io domando se un domani lo choro – come anche il jazz – possa diventare un “linguaggio internazionale”, considerando che la schiera di musicisti italiani e europei che pratica questa musica va sempre più aumentando e chiedo anche come lui vede l’incontro tra culture che si sta sviluppando nel mondo. Yamandu dà una risposta in qualche modo più ampia, estremamente interessante: «Io penso che questo mondo globalizzato è qualcosa di molto nuovo. Il mondo ancora non si conosce. Questa musica sta ancora nascendo; tutte le tradizioni della musica latinoamericana, non solo lo choro. E sono cose ancora molto nuove, che non tutte le persone conoscono. Io penso che il futuro sarà la “mescolanza”. La mescolanza delle persone. Il mondo andrà sempre più mescolandosi. E così diventerà qualcosa di… molto “folle”. E così anche la musica». Trovo molto interessante questa idea espressa da Yamandu, della musica latinoamericana come qualcosa che ancora “sta nascendo”, segno di uno sguardo ampio e consapevole, di lungo periodo, sui processi storici in divenire. Come è anche interessante l’idea di un futuro in cui le culture continuano a trasformarsi e a mescolarsi, come se, su una scala più grande, il mondo possa sperimentare quello che in parte è già accaduto in tempi recenti in Brasile e nell’America Latina.
Vorremmo tutti avere ancora con noi Yamandu per altre ore… Ma il tempo è poco e lui già deve prepararsi per il concerto serale. Così nel pomeriggio, insieme a dei colleghi, seguiamo le prove in teatro, e ci si prepara per l’attesissimo concerto serale, che, in una sala piena degli studenti che la mattina lo avevano ascoltato parlare, non delude minimamente le attese: un’ora e mezza di musica straordinaria, di sola chitarra 7 corde, che in certi momenti riempiva il Teatro Cilea come fosse una intera orchestra.
Come abbiamo detto, il concerto ha visto una alternanza di sue composizioni dal cd “Recanto”, di sue musiche più antiche e di brani della tradizione latinoamericana. Dopo una breve presentazione che mi è stato chiesto di fare dall’organizzazione, il sipario si apre e Yamandu si presenta seduto con la sua chitarra, e con accanto un tavolino dove è appoggiato il mate (“chimarrão”) che poi sorseggerà tra una musica e l’altra. In apertura, uno dei brani più bello di Recanto, Luciana, una sua composizione in tempo composto, dedicata al chitarrista e compositore argentino poi trasferitosi in Brasile, Lúcio Yanel, così importante per la sua formazione, e con il quale ha inciso nel 2001 il cd “Dois tempos”. Poi Mexidão, lo choro con andamento di maxixe, che aveva già fatto ascoltare la mattina, dove si può dire esplora tutti i modi di suonare la chitarra, da una sorta di rasgueado fino al battito delle mani sulla cassa. Si cambia atmosfera con un’altra sua composizione presente in Recanto, Saudade, un brano più “nostalgico” dall’atmosfera tipicamente latino-americana. In Sarará, una composizione che ricorda certe atmosfere di Baden Powell ma anche di Dorival Caymmi, Yamandu intona anche dei versi (“Olha que a noite já vem, olha que o tempo fechou”), e a tutti noi tornano in mente le sue parole della mattina riguardo al suonare come un modo di esprimere il proprio canto interiore. Arriva poi il momento dei due brani non di sua composizione: il “porro” dalla Suite Colombiana n. 1 di Gentil Montaña, che ci aveva accennato la mattina e che qui al concerto assume una forma ancora più dilatata, con momenti di improvvisazione totale, sia dal punto di vista ritmico e accordale che timbrico, fino al finale dove anche qui, la melodia è accompagnata dalla voce. E poi uno dei più noti tanghi argentini, El choclo, riarrangiato e totalmente rivisto e reinventato nello stile di Lúcio Yanel, con variazioni melodiche di estremo virtuosismo. È poi il momento di Samba pro Rafa, un samba in modalità choristica, dedicato al compianto Raphael Rabello, reinciso recentemente insieme al grande chitarrista di São Paulo Alessandro Penezzi, nello straordinario cd “Quebranto”.
Ma l’attività compositiva di Yamandu non si ferma mai: e così ha voluto regalare al pubblico un brano composto appena tre giorni prima, un “paso doble” ancora senza titolo. Successivamente si cambia atmosfera con Benvindo, una toccante ninna nanna in tempo ternario dedicata al figlio, anche qui con il canto che emerge nel finale. Arrivati verso la fine, con brani sempre più ampi che fuoriescono dalla forma data dalla scrittura, il grande chitarrista gaúcho suona Sambéco, un omaggio a Baden Powell, una figura da cui ogni chitarrista brasiliano non può prescindere, e – per chiudere – la lunghissima versione di uno dei suoi brani più noti, El negro del blanco – inciso tra l’altro nel 2004 in un bellissimo disco realizzato con il grande clarinettista Paulo Moura -, dove la chitarra suonata in tutti i modi possibili, improvvisa e interagisce con il fischio e con la voce.
Dopo il concerto Yamandu non si risparmia nel firmare autografi e cd, e si concede per alcuni scatti, in particolare insieme agli studenti di chitarra del Conservatorio accorsi al concerto. Questa giornata è stata per molti di noi un’esperienza di rara intensità, una finestra su un mondo, quello di Yamandu Costa, estremamente ricco e ancora così in divenire. Ed è stato un privilegio poter conoscere da vicino un artista di tale livello, nel pieno della sua maturità creativa. Obrigado Yamandu!

