Vinicius de Moraes, compositore, poeta e diplomatico brasiliano, nel suo Samba da Benção definiva la vita come arte dell’incontro. L’aforisma è diventato il titolo di un disco del 1969 registrato con Sergio Endrigo, Toquinho e Giuseppe Ungaretti.
La vita artistica di Gabriele Mirabassi, clarinettista italiano ben noto nel circuito internazionale del jazz, è la dimostrazione di quanto sia vera l’affermazione di Vinicius. Il passaggio concreto dal teorema alla realtà. Perché se il percorso dell’artista punta, agli esordi, verso la carriera classica, l’incontro con il fisarmonicista Richard Galliano, agli inizi degli anni novanta, devia irrimediabilmente la rotta verso lidi più affini al jazz. Sono gli anni di Fiabe (1995) con Stefano Battaglia, Cambaluc (1998), con Galliano e il Quarteto Namaste, ma anche gli anni dell’incontro inconsapevole con il Brasile, nella figura di Sergio Assad, con cui Mirabassi firma il disco Velho Retrato.

Nella carriera di Mirabassi, però, vero spartiacque è l’incontro con il musicista brasiliano Guinga. Il disco che il duo registrerà per Egea dal titolo Graffiando Vento rappresenta il definitivo slancio dell’artista verso la musica strumentale brasiliana, in particolare lo choro, che da questo momento diventa un lido privilegiato al quale approdare. Da Guinga in poi, infatti, la musica brasiliana e si suoi Gabriele Mirabassipiù brillanti esponenti incrociano il percorso del clarinettista in numerose altre occasioni. Mirabassi colleziona, a sud dell’equatore, collaborazioni con André Mehmari, Mônica Salmaso, Sergio Krakowsky, Toninho Horta e Roberto Taufic. Con quest’ultimo, Mirabassi registrerà nel 2014 il disco Um Brasil Diferente, in cui il duo ripropone un caleidoscopio di brani pescati in epoche diverse offrendone una rilettura più minimalista e lirica. In realtà il disco con il chitarrista brasiliano suggella una collaborazione solida e duratura. Al duo, si è recentemente aggiunta la voce di Cristina Renzetti, cantante italiana ma con un forte imprinting brasiliano: un innesto che completa il mosaico artistico nel progetto che prende il nome da un brano di Tom Jobim, Correnteza.

Anche in questo caso, il leitmotiv è la musica brasiliana nella voce del suo più grande autore, Jobim, per l’appunto. Va detto però che il Trio Correnteza offre un repertorio più ricercato, meno mainstream. Il Jobim che Mirabassi, Taufic e Renzetti presentano è più riservato, più ponderato, tanto nelle melodie, quanto nei temi. Non è Tom, come gli americani amavano chiamarlo, ma piuttosto Antônio Brasileiro, che canta la sua cultura negli aspetti più semplici come la natura di Chovendo Na Roseira o Sabiá. Mirabassi, Taufic e Renzetti si tengono volutamente lontani dalla spiaggia di Ipanema per mostrare un lato di Jobim che pochi conoscono ma che svela i suoi colori più autentici grazie a un lavoro di sublimazione che passa attraverso il genio di questi artisti.

Da Johnny Dodds, passando per Duke Ellington per arrivare a Tom Jobim. Come hai mosso i tuoi primi passi nel mondo della sua musica?
Il percorso è stato accidentale e accidentato. Magari fossi partito da Johnny Doods. In realtà, il mio itinerario parte dalla musica classica. Ho iniziato a studiare in conservatorio a undici anni e ci sono rimasto fino al diploma. All’epoca ero convinto che da grande avrei fatto il concertista classico, nonostante già nutrissi una certa passione per la musica del XX secolo. Ho avuto la possibilità di collaborare con John Cage poco prima che morisse. Parallelamente alla classica, mi è sempre piaciuto il jazz, che mi limitavo a suonare come se fosse un hobby. Nel 1991, per puro caso, incontro un fisarmonicista francese ancora sconosciuto con cui facciamo un disco quasi per gioco. Era Richard Galliano, che poco dopo sarebbe diventato una superstar. Il disco, Coloriage, fu lanciato con una piccola etichetta che, più tardi, sarebbe diventata l’Egea.

In che momento della tua carriera ti sei avvicinato alla musica brasiliana?
Il Brasile non lo conoscevo affatto; avevo una grande passione per Egberto Gismonti ma non sapevo che fosse brasiliano. Credevo si trattasse di un compositore straordinario che mescolava la musica afroamericana alla musica classica. Ci ho messo anni a capire che tutto quello che c’è dentro Gismonti viene dal Brasile. La svolta, per me, è avvenuta quando l’EGEA mi ha proposto di fare un disco con Sergio Assad, del duo Assad. In realtà credevo di fare un disco di musica da camera per chitarra e clarinetto e visto che Assad viveva negli Stati Uniti, non pensavo fosse brasiliano. In realtà fu lui a introdurmi alla musica brasiliana, mi presentò lo choro, il frevo. E mi ricordo che gli chiesi di scrivermi su un taccuino alcuni nomi di musicisti brasiliani da ascoltare. Tra questi spuntava il nome di Guinga.

All’epoca non esistevano mp3 e un giorno, per caso, il produttore Luciano Bertrando mi chiese di ascoltare un senza dirmi chi fosse l’artista che glielo aveva mandato. Quella fu la prima volta che ascoltai Guinga. Mandai in repeat il disco, Suite Leopoldina, almeno quattro volte di seguito: era la cosa più bella che avessi sentito in vita mia.

Per farla breve, meno di un anno dopo con Guinga ho registrato il disco Graffiando Vento. Quel lavoro, per me, costituisce un vero e proprio spartiacque tanto che divido la mia vita in A.G. e D.G., ovvero Avanti Guinga e Dopo Guinga. È stato con lui, infatti, che ho suonato per la prima volta in Brasile,  permettendomi di entrare in quel meraviglioso mondo attraverso una porta privilegiata. Devo ringraziare Guinga se ho potuto esibirmi ai più grandi musicisti brasiliani. Da André Mehmari, al Trio Madeira Brasil, a Mônica Salmaso, a Toninho Horta. I brasiliani mi hanno fatto dei regali incommensurabili, tra cui la possibilità di insegnare musica brasiliana all’Oficina de Musica Brasileira de Curitiba per ben cinque anni. Ecco, io ho scoperto il Brasile da grande.

Anche io ho scoperto la musica brasiliana da grande e credo che questo capiti a molti. Probabilmente perché per capirla è necessario avere un substrato culturale diverso…
Esatto. E soprattutto bisogna avere quelle che loro chiamano referencias. In realtà è una musica estremamente stratificata e complicata: ogni piccolo stilema rimanda a un mondo estremamente preciso. Basta un accento di un certo tipo e ti ritrovi nel nordest durante le celebrazioni di São João, un’armonia di un certo tipo e sei in un quartiere di Rio de Janeiro. Ovviamente, se ti mancano gli strumenti per decodificare questi riferimenti, non puoi capire. E poi c’è la questione della lingua. Capire il portoghese ti consente di apprezzare il mondo unico della poesia che non ha eguali nell’universo. Chico Buarque su tutti. Non esiste al mondo un posto dove la poesia si coniughi alla perfezione con composizioni basate su complessità ritmica, armonica e melodica. Eppure, nonostante questa grande complessità, la musica brasiliana ha una funzione squisitamente popolare.

Nel 2001 hai lanciato il disco 1-0, il cui titolo è un chiaro riferimento al celebre brano di Pixinguinha. In che modo il pubblico italiano si è confrontato con lo choro, questo stile musicale così poco conosciuto al di fuori dei confini brasiliani?
1-0 è un disco che non avrei mai voluto fare. Dopo l’esperienza con Assad avevo iniziato a studiare la musica brasiliana basandomi sulle poche cose che riuscivo a trovare in Europa. Perché ero innamorato dello choro ma non ne capivo praticamente niente. Eppure, con la tipica presunzione dell’europeo, ma con l’accortezza di non sembrare presuntuoso, ho riproposto lo choro sotto una veste diversa, affidandomi a un ensemble composto da bassotuba, clarinetto e fisarmonica.

Strumenti che hanno poco o niente a che fare con lo choro…
Esatto. In realtà volevo fare un disco che mostrasse la bellezza dello choro ma che lasciasse chiaro il fatto che non lo stavo scimmiottando in modo filologico perché non ne sarei nemmeno in grado. Ai musicisti brasiliani, però, il disco è piaciuto molto, forse perché è fatto in un modo in cui loro non la farebbero mai. In seguito ho dedicato molto tempo allo studio dello choro; è una musica che affettivamente mi devasta. È la musica più bella del mondo. Quel disco non riesco proprio ad ascoltarlo: è totalmente sbagliato. Però sono contento del fatto che grazie a questo mio lavoro, lo choro sia diventata una musica che ha una certa diffusione in Italia. Certo non è tutto merito mio, ma credo di aver dato un contributo importante alla sua diffusione. Questo mi inorgoglisce molto.

Oltre a Guinga, c’è un altro musicista brasiliano con cui hai collaborato spesso ed è André Mehmari. Il disco Miramari, che è di più ampio respiro, si muove tra diversi generi musicali. Com’è nata questa collaborazione?
Miramari
Miramari nasce, come tutto quello che è successo in Brasile, dai primi concerti fatti con Guinga. La prima volta che ho suonato a São Paulo, tra il pubblico c’era André MehmariGuinga gli aveva già parlato di me. André è uno dei pochi musicisti brasiliani che si muove agevolmente in un circuito di musica erudito. Avevo ascoltato André, senza saperlo, in uno dei miei dischi preferiti, Iaiá di Mônica Salmaso, in cui c’è una composizione in duo di Mônica e Andrè. Il brano mi colpi molto perché André, se da un lato aveva chiaramente un swing brasiliano, dall’altro era in grado di citare cose che arrivavano a Stravinsky e Chostakovich, per tornare a Monteverdi.

Ebbene, dopo sei mesi ero a São Paulo a registrare Miramari e con lui ho fatto tante altre belle cose. André scrisse per me un concerto per clarinetto, pianoforte e banda sinfonica dello stato di São Paulo su temi di Scarlatti, o un’altra cosa bellissima che è un concerto per clarinetto, fisarmonica e orchestra d’archi sulle quattro stagioni di Vivaldi che poi abbiamo suonato in giro per il mondo.

Con il disco A testa in giù fai un ulteriore passo avanti sia dal punto di vista stilistico (ti accompagni con l’Orquestra à base de Sopro de Curitiba), che in fatto di repertorio che qui diventa più eterogeneo. Raccontaci questa nuova esperienza.
Questo è un disco fatto per ringraziare il Brasile. Nel disco puoi trovare i compositori a cui sono grato. Ed è naturale che ci sia un brano di André, un altro di Lea Freire. Ci sono anche alcuni brani miei che avevo composto con un’impronta jazz ma che questi musicisti brasiliani hanno arrangiato in un modo totalmente diverso da come li avevo pensati. E poi c’è la Valsa Brasileira di Edu Lobo e Chico Buarque. Ecco, è un disco di ringraziamenti.

La vita è l’arte dell’incontro, avrebbe detto Vinicius. E la tua ne è la dimostrazione. Come nasce il progetto Correnteza?
Correnteza ha uno spazio assolutamente specifico all’interno delle cose che faccio che interessa una sfera quasi totalmente affettiva. Quasi mi dispiace presentare Correnteza in pubblico. Quasi mi dispiace averla registrata. È una cosa talmente personale, privata, intima. Con Roberto Taufic avevo già collaborato registrando il disco Um Brasil Diferente e posso dire che Roberto è uno dei musicisti più talentuosi che abbiamo in Italia. È un piacere immenso poter suonare con lui. Tra l’altro, con Roberto, a giugno faccio un altro disco per la CAM. Cristina, invece, l’ho conosciuta a Rio de Janeiro perché era la fidanzata del pandeirista Sergio Krakowsky, nonostante non l’avessi mai sentita cantare. Un giorno ero a Bologna per un concerto con Roberto e abbiamo invitato Cristina a cantare un brano insieme a noi. Ci propose di fare questo pezzo meraviglioso di Jobim che si chiama Correnteza. Quando Cristina salì sul palco e iniziò a cantare fummo investiti da emozioni potentissime. In quel momento è nato il progetto Correnteza.

Due italiani, tu e Cristina Renzetti, e un brasiliano, Roberto Taufic. Quali sono, se ci sono, le difficoltà che un musicista italiano incontra nell’approcciarsi alla musica brasiliana?
Con Cristina e Roberto condivido delle esperienze che qui da noi nessuno capirebbe. I nostri colleghi non capiscono di cosa stiamo parlando. E il problema non è la musica. Qui c’è gente che suona meravigliosamente samba, bossa nova. Non è un problema di suonare. Il vero problema è capire la funzione che la musica ha. Il suo rapporto con l’emozione, il rapporto con l’identità, con la comunicazione, con l’affettività che i brasiliani hanno quando si avvicinano alla musica e alla professione del musicista. Con Roberto e Cristina invece riusciamo a condividere queste esperienze perché tutti e tre le abbiamo vissute in prima persona, vivendo il dramma di non riuscire a trasmetterle qui.

Il progetto non era nato per diventare un disco. Poi, invece, le cose sono cambiate. Quando è nata l’esigenza di lasciare una traccia concreta di questo lavoro?
In realtà per noi Correnteza è talmente bella che cerchiamo molte occasioni per suonarla il più possibile.  Ed è capitato pochissime volte che non provassimo sensazioni così forti suonando. Perché Correnteza, se ad un primo ascolto sembra molto minimale, contiene una quantità insospettabile di improvvisazione. Improvvisiamo piccole cose ma che in quel contesto sono enormi. Invece di fare assoli, improvvisiamo note d’armonia, spostamenti ritmici.

Mentre facevamo Correnteza ho sempre pensato a come avremmo potuto restituire quelle emozioni in un disco. Tanto più se consideriamo che in Correnteza ci confrontiamo con uno Jobim più oscuro, più intimista. Uno Jobim lontano dalla bossa nova. I brani di bossa nova nel disco sono soltanto due. Il primo è Chega de Saudade che noi suoniamo in tre quarti invece che in quattro quarti. L’altro è Desafinado, in cui facciamo quel teatrino della stonatura. Tutti gli altri brani appartengono allo Jobim più profondo che non conosce nessuno. Quello più legato alla natura, al Brasile autentico e non certoCorrenteza alla spiaggia di Ipanema. Ecco, non volevo fare l’ennesimo disco di tre jazzisti italiani che rendono omaggio a Jobim. Chi se lo sarebbe cagato? Non ne sarebbe valsa la pena. Fino a quando, quelli della Hemiolia Records, che producono i nastri analogici, non ci hanno proposto di registrare in analogico. Mi sono subito innamorato del progetto. Oltretutto, l’idea di registrare in analogico, in una chiesa, senza cuffie, seduti a tre centimetri l’uno dall’altro sotto alla Madonna del Signorelli che ci guardava era entusiasmante. Registrando in analogico non abbiamo potuto fare un solo taglio, né tantomeno missare. Mentre registravamo dovevamo prestare molta attenzione agli equilibri tra gli strumenti perché non ci sarebbe stata post produzione. È una cosa che avremmo potuto fare solo con Correnteza per quella fiducia incredibile che nutriamo l’un l’altro. Dopo un anno, dal momento che il risultato ci piaceva così tanto, abbiamo pensato di tirare fuori un disco. Anche perché altrimenti, questa cosa l’avrebbero potuta ascoltare quei 15 appassionati che ancora comprano nastri analogici e sarebbe stato un peccato. Certo, per come stanno le cose oggi, lo ascolteranno poco più di 15 perché il disco è venduto solo sol sito del produttore e non costa poco.

Il repertorio del brano è interamente dedicato a Tom Jobim. Qual è stato progetto di ricerca che vi ha portato alla scelta dei dodici brani? Esiste un filo conduttore che l’ascoltatore dovrebbe conoscere? È interessante il fatto che il vostro lavoro non preveda la presenza del pianoforte, lo strumento di Tom. Qual è stato il vostro approccio alla musica di questo artista?
Tu che vai spesso in Brasile e hai un rapporto intimo con quel Paese, ti sei reso conto che Jobim è l’entità centrale di tutta la musica brasiliana. Viene tutto da Jobim e tutto torna a Jobim. Probabilmente è uno che non ha inventato niente, come Luis Armstrong per il jazz. Non ha inventato niente, ma ha inventato il jazz. Eppure, sono stati personaggi come Jobim e Armstrong che hanno raccolto tutto quello che avevano intorno e l’hanno trasformato in una cosa unica. Pertanto, tutto il Brasile vive dentro Jobim. Prima ho usato una parola: affetto. Correnteza non è un gruppo musicale. È un gruppo affettivo. Con Jobim abbiamo un rapporto affettivo enorme e attraverso Jobim questo affetto si allarga a un popolo che a noi tre ha fatto dei regali impagabili. Noi, tutto sommato, non abbiamo fatto niente. Nel nostro Jobim sono più le cose che abbiamo tolto di quelle che abbiamo messo. Ci siamo permessi pochissimo in termini di arrangiamento, con un approccio minimale che ne valorizzi l’armonia e la melodia. Abbiamo cercato di essere più emozionati ed emozionanti possibile. Dietro Correnteza non c’è un progetto, ma c’è la corrente che ci trascina. L’unico nostro merito è stato il coraggio di lasciarsi trasportare da questo fiume d’emozioni.

Summary
Gabriele Mirabassi, da Guinga a Antônio Carlos Jobim
Article Name
Gabriele Mirabassi, da Guinga a Antônio Carlos Jobim
Description
Il clarinettista di Perugia Gabriele Mirabassi vive ormai da lungo tempo un profondo rapporto affettivo con la musica del Brasile. Ecco il suo nuovo progetto
Author
Publisher Name
Nabocadopovo.it
Publisher Logo