

Mi sono sempre chiesto come mai in una stessa epoca storica, in diversi luoghi dell’occidente (nel Vecchio e nel Nuovo mondo), i gruppi intellettuali poterono raggiungere esiti così differenti, seppure in entrambi i casi innovativi. Due mondi apparentemente inconciliabili: da
un lato la rivoluzione della canzone brasiliana, che con le sue tinte sonore avrebbe dato il colore musicale ad un’intera epoca, e dall’altro una musica “erudita” europea (e quindi anche italiana), sempre più incentrata su una sperimentazione sonora assoluta. Che poi, per certi versi anche João Gilberto sia stato uno “sperimentatore sonoro”, è un altro discorso. E non è certo un caso che proprio i suoi principali “eredi”, Gilberto Gil e Caetano Veloso, diedero vita, insieme a Tom Zé e ad altri artisti, al movimento tropicalista (d’altro canto, possiamo affermare che nella musica brasiliana l’incontro tra popolare ed “erudito”, anche sperimentale, già aveva una lunga storia).
Così, a un certo punto, a causa di una particolare congiuntura storica, nel 1970, il mondo della bossa nova carioca (diluitosi nel grande fiume della cosiddetta MPB) e l’avanguardia romana ebbero un fugace incontro. La Roma degli anni ’60 era un luogo privilegiato e un terreno fertile per gli scambi culturali, come forse nessun altro in Italia, e il rapporto con l’America Latina fu in questo senso intenso. Parliamo della Roma dove si incontravano Vinicius de Moraes, Giuseppe Ungaretti, Leone Piccioni, Sergio Endrigo, Luis Bacalov, Sergio Bardotti, Toquinho e molti altri, spalleggiati da un giornalista militante come Gianni Minà. In quel contesto, nel 1970, prende corpo il long playing “Per un pugno di samba” (RCA Victor, LSP 34085), con Ennio Morricone che, sull’onda di un successo sempre maggiore, arrangiò 12 canzoni di Chico Buarque, allora giovane erede dei padri della bossa nova, che – come è noto – era in quel periodo a Roma, in quello che poteva definirsi come una sorta di auto-esilio, all’epoca della dittatura militare brasiliana. E in quelle dodici tracce, con la voce di Chico che cantava le traduzioni italiane di Sergio Bardotti (che ideò e produsse il disco), ciò che sembrava inconciliabile prese forma.
Non mi risulta che Morricone fosse un particolare cultore della musica brasiliana, come invece ad esempio sembrava essere uno dei più noti autori di colonne sonore di quegli anni, Piero Piccioni. Morricone utilizzò per delle sue musiche da film alcuni stilemi di una bossa nova in “versione nordamericana” (come ad esempio Metti una sera a cena), reinventandoli in un modo assolutamente non filologico. Per questo nel disco con Chico Buarque, non si percepisce il tentativo di replicare stilemi brasiliani: Morricone, semplicemente fa “Morricone”, con la strumentazione tipica di quegli anni (in particolare l’organo suonato da Giorgio Carnini, e poi chitarra elettrica, archi, voci). L’esito a tratti è sorprendente: una musica sospesa tra mondi diversi, senza in realtà un vero mercato di riferimento, dove però le due personalità sono fortemente riconoscibili. Probabilmente è un lavoro nel quale i due geniali artisti non si sono mai riconosciuti pienamente, ma dove sono presenti momenti di bellezza, come in Lei no, lei sta ballando (Ela desatinou), con sullo sfondo la “voce di Morricone”, Edda Dell’Orso, o anche Queste e quelle e Funerale di un contadino con i cori affidati alle giovani Mia Martini e Loredana Berté. L’interpretazione di Chico, anche se in una lingua che non è la sua, è sempre intensa, mentre Morricone si ritaglia dei momenti più personali in alcune introduzioni (In te, In nome di Maria), nei contrappunti e nei colori strumentali, che si stagliano sulla ritmica brasiliana dei session men brasiliani, Irio De Paula (chitarra), Mandrake (percussioni), Afonso Vieira (batteria), che iniziarono in quell’epoca una proficua storia italiana e romana. La RCA lanciò poi in Francia e Spagna la versione in portoghese del disco.
In realtà l’incontro tra Morricone e Chico Buarque, nel contesto del più ampio rapporto Roma-Brasile, può essere considerato come un punto di arrivo di una prima fase di un processo storico, che aveva avuto inizio quasi una ventina di anni prima, quando, tra il 1952 e il 1954, il grande storico Sérgio Buarque de Hollanda (papà di Chico), ebbe un incarico all’Università “La Sapienza”, portando nella capitale italiana la sua famiglia, in un periodo in cui era presente a Roma Vinicius de Moraes, prima di assumere l’incarico al Consolato di Parigi, il quale – si narra – allietava le notti romane cantando accompagnandosi con la sua chitarra. Si forma già allora quel cenacolo di intellettuali e artisti brasiliani e italiani (tra cui Ungaretti, che già aveva un rapporto con Vinicius e con il Brasile), che avrà con Roma una relazione profonda. Egisto Macchi (1928-1992), altro grande compositore di Nuova Consonanza che si dedicò alla musica per il cinema, amico fraterno sia di Morricone che di mio padre Domenico, ebbe anche lui uno stretto legame con il Brasile: tra il ’53 e il ’55 lavorò al Consolato brasiliano di Palermo, e una volta mi raccontò che – non so in quale contesto – conobbe Vinicius de Moraes, rimanendo fortemente colpito dalla levatura intellettuale del poeta brasiliano. Lo stesso Macchi nel 1957 strinse amicizia con il grande poeta Murilo Mendes (che in quell’epoca insegnò alla “Sapienza” di Roma), e del quale musicò alcune liriche.