Quando tra fine anni ’50 e inizio ’60 a Rio de Janeiro esplodeva la bossa nova, a Roma un gruppo di compositori d’avanguardia (Franco GincEvangelisti, Egisto Macchi, Domenico Guaccero, Mauro Bortolotti e alcuni altri) nati alla fine degli anni ’20 (come in Brasile gli autori di Desafinado Tom Jobim e Newton Mendonça), dopo gli studi con Goffredo Petrassi e dopo i viaggi a Darmstadt per i famigerati “Ferienkurse für Neue Musik”, tra il 1959 e il 1962 davano vita a Roma a uno dei principali poli europei della Nuova Musica: l’associazione Nuova Consonanza, nel cui ambito nacque nel 1965 il “mitico” Gruppo di Improvvisazione, al quale prese parte fin dall’inizio il grande Ennio Morricone (anche egli allievo di Petrassi), nato a Roma nel 1928.

Mi sono sempre chiesto come mai in una stessa epoca storica, in diversi luoghi dell’occidente (nel Vecchio e nel Nuovo mondo), i gruppi intellettuali poterono raggiungere esiti così differenti, seppure in entrambi i casi innovativi. Due mondi apparentemente inconciliabili: da Vinicius de Moraes e Tom Jobim
un lato la rivoluzione della canzone brasiliana, che con le sue tinte sonore avrebbe dato il colore musicale ad un’intera epoca, e dall’altro una musica “erudita” europea (e quindi anche italiana), sempre più incentrata su una sperimentazione sonora assoluta. Che poi, per certi versi anche João Gilberto sia stato uno “sperimentatore sonoro”, è un altro discorso. E non è certo un caso che proprio i suoi principali “eredi”, Gilberto Gil e Caetano Veloso, diedero vita, insieme a Tom Zé e ad altri artisti, al movimento tropicalista (d’altro canto, possiamo affermare che nella musica brasiliana l’incontro tra popolare ed “erudito”, anche sperimentale, già aveva una lunga storia).

Così, a un certo punto, a causa di una particolare congiuntura storica, nel 1970, il mondo della bossa nova carioca (diluitosi nel grande fiume della cosiddetta MPB) e l’avanguardia romana ebbero un fugace incontro. La Roma degli anni ’60 era un luogo privilegiato e un terreno fertile per gli scambi culturali, come forse nessun altro in Italia, e il rapporto con l’America Latina fu in questo senso intenso. Parliamo della Roma dove si incontravano Vinicius de Moraes, Giuseppe Ungaretti, Leone Piccioni, Sergio Endrigo, Luis Bacalov, Sergio Bardotti, Toquinho e molti altri, spalleggiati da un giornalista militante come Gianni Minà. In quel contesto, nel 1970, prende corpo il long playing “Per un pugno di samba” (RCA Victor, LSP 34085), con Ennio Morricone che, sull’onda di un successo sempre maggiore, arrangiò 12 canzoni di Chico Buarque, allora giovane erede dei padri della bossa nova, che – come è noto – era in quel periodo a Roma, in quello che poteva definirsi come una sorta di auto-esilio, all’epoca della dittatura militare brasiliana. E in quelle dodici tracce, con la voce di Chico che cantava le traduzioni italiane di Sergio Bardotti (che ideò e produsse il disco), ciò che sembrava inconciliabile prese forma.

Non mi risulta che Morricone fosse un particolare cultore della musica brasiliana, come invece ad esempio sembrava essere uno dei più noti autori di colonne sonore di quegli anni, Piero Piccioni. Morricone utilizzò per delle sue musiche da film alcuni stilemi di una bossa nova in “versione nordamericana” (come ad esempio Metti una sera a cena), reinventandoli in un modo assolutamente non filologico. Per questoControcopoertina Per un pugno di samba nel disco con Chico Buarque, non si percepisce il tentativo di replicare stilemi brasiliani: Morricone, semplicemente fa “Morricone”, con la strumentazione tipica di quegli anni (in particolare l’organo suonato da Giorgio Carnini, e poi chitarra elettrica, archi, voci). L’esito a tratti è sorprendente: una musica sospesa tra mondi diversi, senza in realtà un vero mercato di riferimento, dove però le due personalità sono fortemente riconoscibili. Probabilmente è un lavoro nel quale i due geniali artisti non si sono mai riconosciuti pienamente, ma dove sono presenti momenti di bellezza, come in Lei no, lei sta ballando (Ela desatinou), con sullo sfondo la “voce di Morricone”, Edda Dell’Orso, o anche  Queste e quelle e Funerale di un contadino con i cori affidati alle giovani Mia Martini e Loredana Berté. L’interpretazione di Chico, anche se in una lingua che non è la sua, è sempre intensa, mentre Morricone si ritaglia dei momenti più personali in alcune introduzioni (In te, In nome di Maria), nei contrappunti e nei colori strumentali, che si stagliano sulla ritmica brasiliana dei session men brasiliani, Irio De Paula (chitarra), Mandrake (percussioni), Afonso Vieira (batteria), che iniziarono in quell’epoca una proficua storia italiana e romana. La RCA lanciò poi in Francia e Spagna la versione in portoghese del disco.

In realtà l’incontro tra Morricone e Chico Buarque, nel contesto del più ampio rapporto Roma-Brasile, può essere considerato come un punto di arrivo di una prima fase di un processo storico, che aveva avuto inizio quasi una ventina di anni prima, quando, tra il 1952 e il 1954, il grande storico Sérgio Buarque de Hollanda (papà di Chico), ebbe un incarico all’Università “La Sapienza”, portando nella capitale italiana la sua famiglia, in un periodo in cui era presente a Roma Vinicius de Moraes, prima di assumere l’incarico al Consolato di Parigi, il quale – si narra – allietava le notti romane cantando accompagnandosi con la sua chitarra. Si forma già allora quel cenacolo di intellettuali e artisti brasiliani e italiani (tra cui Ungaretti, che già aveva un rapporto con Vinicius e con il Brasile), che avrà con Roma una relazione profonda. Egisto Macchi (1928-1992), altro grande compositore di Nuova Consonanza che si dedicò alla musica per il cinema, amico fraterno sia di Morricone che di mio padre Domenico, ebbe anche lui uno stretto legame con il Brasile: tra il ’53 e il ’55 lavorò al Consolato brasiliano di Palermo, e una volta mi raccontò che – non so in quale contesto – conobbe Vinicius de Moraes, rimanendo fortemente colpito dalla levatura intellettuale del poeta brasiliano. Lo stesso Macchi nel 1957 strinse amicizia con il grande poeta Murilo Mendes (che in quell’epoca insegnò alla “Sapienza” di Roma), e del quale musicò alcune liriche.

Quella storia di incontri è poi continuata (e a volte rimpiango di non essere nato un po’ prima del 1966, per vivere pienamente quella stagione!), in luoghi storici come il FolkStudio, dove i protagonisti dell’avanguardia, del free jazz, della musica latinoamericana e della canzone popolare italiana si incontravano e si confrontavano. Roma in quegli anni era un luogo speciale, c’era una spinta verso il dialogo tra le arti e tra i diversi contesti, favorito anche da enti di produzione culturale, come la Rai e Cinecittà. E il romano Morricone, dialogò a tutto campo e interagì con la “musica impura”, vuoi che fosse il mondo della canzone, che la musica per il cinema. E malgrado affermasse che la sua musica più autentica, in cui si riconosceva pienamente, era la sua “musica assoluta”, e non quella cinematografica (se non in una piccola parte), in realtà proprio con questa ha raggiunto un successo “popolare” che durerà nel tempo, paragonabile solo a quello delle star della popular music, o dei grandi nomi della musica classica. Mi vengono allora in mente alcune parole che Chico Buarque a soli 22 anni scrisse con una lucidità impressionante, nel 1966, nelle note di copertina del suo del suo primo long playing (dove sono presenti capolavori come A Banda e Pedro Pedreiro), che centrano, a mio giudizio, il problema. Afferma Chico: «[…] l’esperienza compositiva pura, senza parole, per il teatro e il cinema mi ha rivelato l’importanza dello studio e della ricerca musicale, mai intesa come ostentazione o come distanziamento dal “popolare”, ma semmai come contributo allo stesso» (Stefano La Via, 2006). Ecco, ho sempre pensato che questa frase poteva valere anche per un artista come Ennio Morricone, nella cui opera musicale per il cinema, la ricerca ha rappresentato un contributo per raggiungere una dimensione “popolare” e non un mezzo per distanziarsene.    La scomparsa di Morricone, il 6 luglio 2020, ha rappresentato per me (come per le tante persone che lo hanno conosciuto) un doppio dolore. Da un lato la scomparsa di una persona cara, che da quando sono nato era presente tra le relazioni della mia famiglia di origine, e di quella “famiglia allargata” che è stata per me l’Associazione Nuova Consonanza e che in momenti importanti è riuscito a darmi fiducia in ciò che facevo. È stato l’ultimo grande di quella generazione di colleghi ed amici ad andarsene, e ricordo che a ogni lutto dell’Associazione lui era sempre presente nelle cerimonie, a ricordare gli amici scomparsi. Dall’altro la perdita di un’icona internazionale, che con le sue musiche è ormai presente nell’immaginario collettivo musicale dell’intero pianeta. Le due immagini (il privato e il pubblico) ora si sovrappongono. Anche se posso dire che pure più in generale, sul piano umano – per quel poco che ho potuto capire – lui non era in fondo così diverso da come appariva: diretto, schivo, a volte austero, ma allo stesso tempo sempre pronto alla battuta in romanesco, generoso, sempre curioso, un esempio di rigore morale per tutti noi musicisti. È stato un privilegio averlo conosciuto da quel particolare osservatorio, che è stata la “famiglia allargata” di Nuova Consonanza, alla quale è rimasto legato fino alla fine dei suoi giorni. Grazie Ennio.