Yamandu Costa ha 38 anni. Di questi, 31 sono quelli dedicati alla chitarra. La sua formazione “accademica” è nulla. Quella sul campo viene da un’infanzia passata insieme ai genitori musicisti in giro per le campagne del sud del Brasile a fare spettacoli nelle feste di paese, e in casa con innumerevoli musicisti di passaggio. Uno di questi, Lucio Yanel, è insieme a Raphael Rabello, Radamés Gnattali, Baden Powell tra i modelli di Yamandu, figlio di una tradizione per la quale la musica è una faccenda quotidiana, fatta di ricerca, virtuosismi e innovazione, certo, ma non per questo meno legata alle arie popolari, alla festa, allo stare insieme.
È per questo che quando Yamandu sale su un palco, come quello dell’interessantissimo festival Jazz On The Road di Brescia lo scorso 12 luglio, sembra che venga a sedersi nel soggiorno di casa vostra. Qualche chiacchiera, qualche battuta giusto per saggiare con più sicurezza un patto tacito che il suo pubblico sottoscrive con la più grande naturalezza, e poi le composizioni (quasi tutte originali) si susseguono una dopo l’altra. Passa dal choro al tango, all’habanera, alla zamba come un libro in piena scrittura aperto sulla storia musicale del Sudamerica. Ripropone stereotipi, gioca con le inflessioni, rompe gli schemi e li ricompone: un concerto di Yamandu è una specie di danza, resa possibile da una padronanza che sembra non avere limiti e che permette al nuovo padrino della chitarra popolare brasiliana di cambiare direzione a ogni istante, di ammiccare al pubblico, di perdersi in divagazioni, di alzare e abbassare incredibilmente la dinamica, senza mai smarrire il proprio centro di gravità e la propria presenza.
Nel suo percorso artistico, Yamandu Costa ha già passato il momento di dare prova di sé guadagnando l’attenzione del mondo musicale (anche grazie all’apparizione del 2005 nel film Brasileirinho di Kaurismäki). Addolcendo le asprezze di un giovane prodigio strabordante di energie (in buona parte, dice, grazie all’influenza personale del grande Dominguinhos), si presenta ora come un musicista solidamente strutturato, capace di rappresentare un punto di incontro in pieno movimento tra tradizione e sete di innovazione e contaminazione senza a priori.
La musica – Yamandu lo sa bene – rivela sulla propria superficie i cambiamenti e le variazioni con una velocità e una sensibilità che oltrepassano di molto le capacità del singolo musicista. Bisogna rincorrerla e adeguarvisi con una certa dose di umiltà e di costanza. È ciò che accade anche al choro brasiliano, di cui Yamandu non fa che intercettare le mutazioni raccogliendo grandi e piccoli stimoli dai più diversi incontri, da Doug de Vries a Guto Wirtti, passando da altre piccole sorprese incontrate in questo viaggio europeo, come i choros dell’italiano Giovanni Guaccero o la fisarmonica del francese Vincent Peirani.
Come ci tiene a sottolineare Yamandu in un bel seminario organizzato qualche ora prima del concerto dagli organizzatori del festival, è questo che lo motiva a suonare all’estero. Il Brasile è un paese sufficientemente grande per sostenere una carriera concertistica e discografica, ma è in tournée che è possibile creare più occasioni di scambio inaspettate, anche se ciò significa andare incontro a un pubblico non necessariamente numeroso o preparato, su palchi talvolta modesti.
Aspettando che il nome di Yamandu riempia sale di ben altre dimensioni anche in Europa, nella calma cornice di piazza Tebaldo Brusato, fatta di alberi, facciate neoclassiche e terra battuta, siamo stati i testimoni felici di un presente già ricco eppure ancora pieno di promesse per lui, per la musica sudamericana, e per una scuola di pensiero sempre più viva, che non vede distinzione tra “colto” e popolare.

